Non viola i principi di correttezza e liceità del trattamento il creditore che, per recuperare un proprio credito, invia solleciti, fax e terzi addetti al recupero presso l’indirizzo indicato nel contratto da cui origina il credito, anche se ciò comporta la comunicazione dei dati sulla posizione debitoria ai famigliari dell’interessato.
Pare essere questo il recente principio di diritto sancito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 19423 del 3 agosto 2017, con la quale è stato respinto il ricorso avanzato da un cliente nei confronti di un istituto di credito che aveva, in un primo momento, diffuso all’interno del nucleo familiare di questi ed, in secondo luogo, segnalato al CRIF taluni dati comprovanti il suo debito bancario.
Il ricorrente – lamentando nello specifico la violazione e la falsa applicazione degli artt. 11, 12, 15 e 154 del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, nonché degli artt. 112 c.p.c., 2697, 2050, 1226 e 2056 cod .civ. e artt. 2, 3 e 29 Cost. –
proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, depositata il 27 marzo 2017, con la quale era stato ritenuto non sussistente, a differenza di quanto addotto dal ricorrente, la violazione degli artt. 11, comma 1, lettera a) e 154, comma 1, lettera c) del Decreto legislativo n. 196 del 2003 (in riferimento al trattamento lecito e corretto dei dati nonché all’adozione delle misure necessarie o opportune per renderlo conforme alle disposizioni vigenti).
La vicenda, d’altro canto, ruotava attorno alla valutazione circa la legittimità del modus operandi della Banca volto a recuperare il proprio credito (invio di terzi, telefonate, fax presso la casa dei genitori per sollecitarne il pagamento) in considerazione del fatto che i dati utilizzati per un siffatto fine erano ben presenti nel contratto di finanziamento, regolarmente sottoscritto da ambedue le parti.
Ebbene, la Corte di Cassazione, non discostandosi dal ragionamento seguito dal giudice di secondo grado, ha dichiarato non sussistente “l’uso illecito dei dati personali del Cliente da parte della Banca“.
Non vi è stata, secondo gli Ermellini, “violazione del diritto alla privacy del medesimo e del suo nucleo familiare che, tra l’altro, considerata l’unicità di domicilio e di utenza telefonica, non avrebbe potuto non venire a conoscenza della situazione debitoria del cliente […] Tanto più che il pagamento delle rate del finanziamento de quo era stato effettuato dalla società di famiglia, della quale il padre del ricorrente era socio”.
Quanto alla segnalazione al CRIF effettuata dall’istituto bancario, la Suprema Corte ha poi sottolineato l’opportunità concreta di una siffatta azione, stante l’esigenza di realizzazione delle ragioni creditorie attuali e legittime.
Per tali ragioni, dunque, la Corte di Cassazione ha ritenuto il trattamento dei dati personali in linea con quanto disposto dal Codice della Privacy, con riguardo ai principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza e, pertanto, ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
Il testo completo della sentenza è pubblicato sul sito della Corte Suprema di Cassazione (http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/)