Qualora una vendita di bitcoin venga reclamizzata su un sito-web come una proposta di investimento, e cioè attraverso specifiche informazioni volte a porre i risparmiatori nella condizione di poter valutare se aderire o meno all’iniziativa, ciò che verrebbe a configurarsi è un’attività soggetta ai poteri di vigilanza della Consob (cfr. artt. 91 e ss. TUF), la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166 co. 1 lett. c) TUF (rubricato come “Abusivismo”).
È quanto sancito con sentenza n. 26807, depositata il 25.9.2020, dalla Corte di Cassazione, che si è pronunciata su un ricorso avverso un’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame. Tale ordinanza era incentrata su un decreto di sequestro preventivo (emesso dal GIP del predetto Tribunale) della somma di circa 200.000 euro.
Ciò posto, giova precisare preliminarmente che la disposizione di cui al suindicato art. 166 co. 1 lett. c) TUF prevede la sanzione della reclusione da uno a otto anni e della multa da quattromila euro a diecimila euro verso chiunque, che, senza esservi abilitato ai sensi del TUF, offra fuori sede, ovvero promuova o collochi mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento (c.d. intermediazione finanziaria abusiva).
Con riferimento al caso di specie, si osserva come il suindicato sequestro preventivo sia stato disposto nei confronti di Tizio, che, in conseguenza di determinate compravendite di bitcoin (attraverso il network “localbitcoin.com” e poi attraverso il sito “bitcoingo”) risultava indagato per una serie di ipotesi di reato ascrivibili, tra gli altri, al riciclaggio ex art. 648-bis c.p., all’intermediazione finanziaria abusiva ex art. 166 co. lett. c) TUF e all’indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento di cui all’art. 493-ter c.p.
Tizio, dunque, a fronte del rigetto del giudice del riesame circa il ricorso avverso la succitata misura cautelare, ricorreva in cassazione, formulando i seguenti quattro motivi:
- omissione di motivazione, da parte del giudice del riesame, sui motivi nuovi depositati dalla difesa, che attenevano all’elemento soggettivo del reato;
- inesatte valutazioni circa le proporzioni della somma sequestrata;
- incongrue valutazioni giuridiche offerte relativamente all’attività di cambiavalute virtuale, che, secondo quanto precisato dalla difesa, doveva ritenersi esclusa dai segmenti della normativa in materia di strumenti finanziari. Ciò in quanto, le valute virtuali stesse dovrebbero essere considerate, secondo anche un orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE (cfr. CGUE del 22.10.2016, causa C-264/14), come meri mezzi di pagamento e, pertanto, non potendosi qualificare come strumenti finanziari (a riguardo, l’art. 1 co. 2 TUF stabilisce che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”), non potrebbero essere assoggettate alla normativa sugli strumenti finanziari;
- eccezioni relative alla violazione dell’art. 493-ter c.p. (rubricato come “Indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento”).
Con particolare riferimento al terzo motivo di ricorso, gli ermellini affermavano che, se una vendita di bitcoin viene pubblicizzata attraverso i proclami utilizzati nel caso in esame (quali, “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”), si profila una proposta di investimento da assoggettare ai poteri di intervento di Consob, con la conseguenza, quindi, che, nei confini di tale fattispecie, le valute virtuali non sarebbero più assimilabili al perimetro dei mezzi di pagamento e, pertanto, l’inosservanza delle disposizioni inerenti alla normativa sugli strumenti finanziari consentirebbe la sussistenza delle ipotesi sanzionatorie previste in materia.
Ciò posto, la Corte di legittimità, pronunciandosi per la fondatezza solo del secondo motivo, annullava l’ordinanza impugnata da Tizio, rinviando per un nuovo giudizio al Tribunale competente.