Con sentenza n. 260/2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 5, del DLgs. n. 101/2018, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
La norma censurata prevedeva l’interruzione del termine di prescrizione del diritto a riscuotere le somme dovute in relazione a violazioni data protection commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del DLgs. 101/2018 e oggetto di procedimenti sanzionatori non ancora definiti alla data di applicazione del Regolamento UE 2016/679 (c.d. GDPR).
I succitati procedimenti sanzionatori, in virtù di quanto disposto dall’art. 166 del Codice in materia di protezione dei dati personali (DLgs. n. 196/2003), sempre del testo precedente alla riforma del 2018, sono regolati dalla legge n. 689/1981 e si articolano nelle seguenti fasi:
- la prima è quella dell’acquisizione di elementi istruttori, che si conclude con la contestazione immediata o con la notifica degli estremi della violazione, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689/1981;
- la seconda fase è quella decisoria, cioè preordinata all’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione o del provvedimento di archiviazione. Al fine di concludere tale fase, l’amministrazione non deve, di regola, rispettare altro termine se non quello quinquennale di prescrizione, di cui all’art. 28 della legge n. 689/1981.
L’ interruzione automatica del termine di prescrizione operata dall’art. 18, comma 5, del DLgs. n. 101 del 2018 si innesta su tale disciplina e, a parere della Corte, ha reso irrilevante il tempo già trascorso tra la notifica della contestazione dell’illecito e l’entrata in vigore del DLgs. n. 101/2018, con la conseguenza per cui detta interruzione, che già di per sé rende eccessivamente squilibrato il rapporto fra privato e pubblica amministrazione, si traduce in una intollerabile compressione delle ragioni di tutela del privato.
Secondo la Corte Costituzionale, infatti, l’amministrazione può attivarsi per la riscossione delle somme dovute in base all’ordinanza-ingiunzione prodottasi per forza dello stesso art. 18, comma 2, del DLgs. n. 101/2018, oppure, nell’ipotesi in cui il privato presenti nuove memorie difensive ai sensi dell’art. 18, comma 4, del DLgs. n. 101/2018, può emettere l’ordinanza-ingiunzione, anche oltre un quinquennio dall’unico atto che è stato notificato all’interessato (grazie all’interruzione, si sommano infatti altri cinque anni al tempo già trascorso dalla notifica della contestazione alla data di entrata in vigore del DLgs. n. 101 del 2018). Il privato, invece, dopo aver rispettato il termine di trenta giorni per opporsi alla contestazione della sanzione amministrativa, può doversi difendere, sempre entro trenta giorni dalla notifica della cartella o dalla notifica dell’ordinanza-ingiunzione, a distanza di oltre cinque anni dalla notifica dell’atto con il quale gli era stata contestata la violazione. Nessun’altra comunicazione, infatti, è tenuta a effettuare l’amministrazione nel frattempo, neppure con riferimento alle facoltà concesse ai privati dai primi commi del precitato art. 18 e alle conseguenze derivanti a carico di coloro che non si avvalgano di tali facoltà.
A fronte di tali ragioni, la Corte non ha ravvisato, a sostegno della disposizione censurata, alcun motivo idoneo a giustificare un livello tanto intenso di compressione della posizione del privato, precisando dunque che lo scenario provocato dall’interruzione automatica del termine di prescrizione operata dall’art. 18, comma 5, del DLgs. n. 101 evidenzia una palese violazione del principio di ragionevolezza e del canone di proporzionalità.