Interessante sentenza del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano in tema di dichiarazioni fornite all’interno del modulo di autocertificazione adottato per poter circolare con le restrizioni in vigore per evitare la diffusione del Covid-19.
La pronuncia affronta il tema della possibilità di far rientrare nell’ambito di operatività della fattispecie l’ipotesi di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), con specifico riferimento alle attestazioni circa le proprie intenzioni di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività.
Oggetto di valutazione era, in particolare, la condotta di un imputato – al quale veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 76 DPR 445/2000 in riferimento all’art. 483 c.p. – che, in sede di autodichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000 e consegnata ai Carabinieri nell’ambito dei controlli sul rispetto delle misure di contenimento COVID-19, aveva riferito una circostanza (ossia il fatto che lo stesso si stava recando presso un collega per ritirare dei pezzi di ricambio) poi rivelatasi non vera a seguito di accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria.
Sebbene «non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria» – si legge nella sentenza – «va, tuttavia, escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione, in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”».
Dopo aver richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi», il Giudice ha osservato come tale conclusione appaia confermata nel caso di specie, «giacché la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post».
Inoltre, nella stessa normativa in tema di autocertificazioni i “fatti” sono indicati quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione».
Ne discende – si legge nel provvedimento – che «mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”».
Come recentemente osservato da autorevole dottrina – conclude la sentenza – «il nostro ordinamento non incrimina qualunque dichiarazione falsa resa ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio ma costruisce i reati di falso secondo una sistematica casistica: ne consegue, «per le ragioni appena espresse, che la dichiarazione di una mera intenzione nell’ambito di un modulo di autocertificazione non può rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 483 c.p., limitato ai soli “fatti” già occorsi».