
Nell’era digitale, la tutela della reputazione online è una delle sfide giuridiche più rilevanti e complesse. La rapida e globale diffusione delle informazioni, unita alla loro permanenza online, espone le persone a contenuti superati o non più corrispondenti alla realtà, con possibili danni alla reputazione e alla vita privata.
La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 14488 del 21 maggio 2025 si inserisce in questo scenario delicato, offrendo un importante contributo sul bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto all’informazione, nonché sul ruolo dei motori di ricerca, in particolare Google, nella gestione dei dati personali. La decisione chiarisce come il nostro ordinamento giuridico intenda affrontare questa complessa tematica, consolidando principi già espressi dalla giurisprudenza europea e nazionale.
Che cos’è il diritto all’oblio?
Il diritto all’oblio tutela la persona dal permanere indefinito e ingiustificato di dati personali, in particolar modo se informa lesive della propria immagine o reputazione sul web. Tale diritto si estende anche gli ulteriori titolari del trattamento che abbiano ripreso detta informazione. Non si tratta quindi semplicemente di “cancellare” notizie, ma di garantire che i dati personali, soprattutto quelli ormai superati o non più corrispondenti alla realtà, non continuino a nuocere alla vita di qualcuno.
La Corte ha definito il diritto all’oblio come il diritto a non rimanere esposti indefinitamente a una rappresentazione non più attuale della propria persona, che possa pregiudicare reputazione e riservatezza. Il termine temporale per valutare questo diritto va riferito alla data di pubblicazione della notizia originale e non a eventuali successivi sviluppi giudiziari.
Il quadro giurisprudenziale precedente: un percorso di bilanciamento.
Questa decisione si colloca in un solido filone giurisprudenziale che ha progressivamente definito i confini del diritto all’oblio, bilanciandolo con il diritto di cronaca e la tutela della memoria storica. Tra le tappe principali si ricordano:
- La sentenza Google Spain della Corte di Giustizia UE (2014), che ha riconosciuto ai motori di ricerca la responsabilità nel trattamento dei dati personali e la possibilità di prevalenza del diritto all’oblio sugli interessi di pubblico accesso;
- Le pronunce della Corte di Cassazione italiana che hanno introdotto il concetto di deindicizzazione come strumento per limitare la visibilità di contenuti obsoleti, preservando la memoria storica senza cancellare completamente le informazioni.
Il diritto alla deindicizzazione.
Il caso ha riguardato la persistente presenza online di articoli che collegavano l’interessato all’accusa di appartenenza alla ‘ndrangheta, accusa però definitivamente esclusa dalla Corte di Cassazione nel 2015. In questo contesto, il diritto alla deindicizzazione ha rappresentato lo strumento centrale per tutelare la reputazione.
La deindicizzazione consiste nella rimozione dai risultati dei motori di ricerca dei link che rimandano a contenuti personali obsoleti o non più rilevanti, senza eliminare il contenuto originale. Questo meccanismo consente di bilanciare il diritto alla riservatezza con il diritto di cronaca, eliminando la visibilità di informazioni che, seppur pubblicate legittimamente in passato, non rispecchiano più la realtà attuale della persona interessata.
Il ruolo di Google nella vicenda.
Il procedimento ha visto Google LLC come titolare del trattamento dei dati personali raccolti tramite il motore di ricerca, chiamata in causa con un ricorso ex art. 79 GDPR che ne ha chiesto la rimozione di URL legati a vicende giudiziarie concluse con la sua assoluzione per i reati più gravi.
Google, tuttavia, ha negato la rimozione degli URL, sostenendo che le informazioni rimanevano rilevanti e legittimamente indicizzate, in considerazione della condanna residua per altri reati e del ruolo pubblico e imprenditoriale del ricorrente a livello locale.
Il Tribunale di Milano ha confermato in prima istanza la prevalenza dell’interesse pubblico all’informazione, rigettando il ricorso di per alcuni URL, mentre per altri ha dichiarato cessata la materia del contendere a seguito di rimozioni spontanee da parte di Google.
La Corte di Cassazione ha infine approfondito la questione, ribadendo l’importanza di un bilanciamento accurato tra diritto all’oblio e diritto all’informazione, riconoscendo la responsabilità di Google come titolare del trattamento ai sensi del GDPR e del Regolamento UE, e sottolineando che la decorrenza temporale per valutare la legittimità della permanenza delle informazioni deve partire dalla data di pubblicazione originaria della notizia.
Aggiornamento e contestualizzazione delle informazioni.
L’aggiornamento e la contestualizzazione delle notizie rappresentano condizioni imprescindibili per evitare che la permanenza di informazioni obsolete diventi lesiva per la reputazione dell’interessato. In particolare, la Corte ha sottolineato come, quando la cancellazione delle notizie non sia possibile o appropriata, sia necessario apporre una nota che illustri l’esito giudiziario definitivo, così da fornire un quadro completo e corretto della vicenda.
Questa prassi è coerente con i principi di trasparenza e correttezza previsti dal Regolamento UE 2016/679 (GDPR), in particolare con l’articolo 5 che impone che i dati personali siano trattati in modo esatto e, se necessario, aggiornati. Inoltre, l’articolo 17 del GDPR disciplina il diritto alla cancellazione (“diritto all’oblio”), bilanciandolo con il diritto alla libertà di espressione e informazione.
Un equilibrio per il futuro.
La sentenza rappresenta un passo importante per la tutela dell’identità nell’era digitale, dimostrando che è possibile bilanciare il diritto all’oblio con la libertà di informazione grazie a strumenti come la deindicizzazione e l’aggiornamento contestuale.
Un compito fondamentale spetta a operatori web, media e professionisti legali, per garantire un equilibrio tra diritti individuali e diritto collettivo all’informazione.